Enciclopedia Italiana
(1937)
di Carlo Alfonso Nallino
WAHHĀBITI. - In arabo wahhābiyyah, al sing. wahhābī, è il nome che gli avversarî, seguiti dagli scrittori
europei, diedero e dànno ai seguaci del movimento di rigorismo musulmano
sunnita suscitato nell'Arabia centrale, un po' prima della metà del sec. XVIII,
da Muḥammad ibn ‛Abd al-Wahhāb e ancor oggi
colà fiorente, anzi imperante.
Invece i
wahhābiti dànno a sé medesimi il nome di neǵdiani, poiché appunto il
Neǵd è il
loro terrítorio principale e la culla del movimento, oppure quello di muwaḥḥidūn "gli
affermanti l'unicità di Dio", con questo termine volendo affermare la
purezza della loro credenza non inquinata dalle deviazioni ch'essi pensano
trovarsi nella maggioranza degli altri musulmani sunniti e, peggio ancora, fra
gli eretici sciiti.
Muḥammad ibn ‛Abd al-Wahhāb era nato intorno al 1703-1704 ad al-‛Uyainah
(el-Ayeneh, Ayaina, ecc. nei libri e carte italiani), villaggio, ora in rovina,
nella provincia neǵdiana al-‛Āriḍ della quale oggi è
capoluogo ar-Riyāḍ, e là dal padre, qāḍī di scuola ḥanbalita, fu iniziato agli studî teologici e giuridici, che poi andò a
perfezionare a Medina ed al-Baṣrah nella Mesopotamia meridionale. In quest'ultima
città manifestò apertamente il suo stretto rigorismo, inveendo contro tutto ciò
che era o gli sembrava essere deviazione dalle buone norme dell'islamismo
antico; ma la sua irruenza in parole e in atti gli procurò tanti nemici, che fu
costretto ad abbandonare la città in tutta fretta, per poi peregrinare nella
provincia al-Aḥsā' (lungo le coste arabe del Golfo Persico settentrionale) e infine
ritrarsi nella provincia nativa a Ḥuraimilā, dove il padre si era frattanto
stabilito. Compose alcuni opuscoli di carattere catechistico e di riprovazione
di credenze e usi popolari ch'egli tacciava di paganesimo e politeismo;
continuò pure la propaganda orale, benché con qualche moderazione dovuta a
riguardo verso il padre contrario agli eccessi; ma, morto il padre nel 1740-41,
si lasciò andare a tutta la foga della sua intransigenza, provocando forti
reazioni e persino un opuscolo di suo fratello Sulaimān contro i suoi
insegnamenti.
In materia di dogmatica egli accettava
senz'altro il catechismo di al-Arh‛arī, pienamente conforme alle dottrine del
fondatore della scuola teologico-giuridica ḥanbalita, ma respingeva, come innovazione
riprovevolissima, il kalām ossia la teologia speculativa o
razionale. In materia giuridica si professava ḥanbalita come il padre e come la grande
maggioranza degli abitanti dell'Arabia centrale. Nel rigorismo era seguace
fedele dell'indirizzo quasi fanatico del famoso ḥanbalita Ibn Taimiyyah (morto nel 1328 d. C.) e del costui discepolo Ibn Qayyim
al-Giawziyyah (morto nel 1350), rinneganti ogni credenza e usanza che apparisse
introdotta dopo la prima generazione musulmana o repugnante ai primi
insegnamenti dell'islamismo, ed esigenti la strettissima applicazione delle
norme rituali e giuridiche sia da parte dei singoli sia da parte dei
governanti. Perciò l'ormai diffuso culto dei santi viventi o defunti, il
credere nell'intercessione loro o di Maometto stesso per ottenere favori
materiali in questa vita e in tale credenza il fare visite pie ai loro sepolcri
e formare voti e invocare i loro nomi (incluso quello di Maometto), erano
giudicati atti di shirk (politeismo), poiché implicavano il
far condividere da esseri umani l'onnipotenza e il volere di Dio. In base a un
detto attribuito al Profeta, si proibiva e dichiarava peccato capitale
l'erigere mausolei sulle tombe (che invece dovrebbero appena sporgere dalla
terra), il farne moschee per la preghiera canonica, il rivolgersi in Medina
verso il mausoleo di Maometto orando. Ogni forma superstiziosa di culto,
gli ex voto, ecc. erano dichiarati empietà; e in modo conforme alle
prescrizioni d'ogni libro di diritto musulmano era vietato agli uomini di
portar vesti di seta e oggetti d'oro e d'argento. Proscritte in modo assoluto
le figure d'esseri viventi. Fin qui ogni teologo e giurista poteva convenire,
ma a condizione d'escludere la qualifica di politeista (mushrik) o
miscredente (kāfir) per il colpevole; tale qualifica, in diritto
musulmano, mette fuori della legge chi l'ha veramente meritata se, dopo le
esortazioni a ricredersi, persiste nel suo traviamento; la sua vita e i suoi
beni diventano leciti ai credenti, il suo matrimonio decade ipso facto,
si rompono i suoi rapporti ereditarî con i parenti, la sua testimonianza nei
giudizî non può venir accolta. Onde è chiaro qual fonte di turbamenti
gravissimi sarebbe stata nel sec. XVIII l'applicare con la forza e in modo
completo il rigorismo intransigente d'Ibn Taimiyyah. Si aggiunga che il nostro
Muḥammad ibn ‛Abd al-Wahhāb accettava anche l'altra dottrina del suo maestro
ideale, respinta dalla grandissima maggioranza dei dotti, che fosse lecito
scostarsi, in qualche punto del fiqh (somma delle norme
rituali e della massima parte del diritto), dai precetti della scuola (madhhab)
propria per aderire a quelli di un'altra delle quattro sunnite od ortodosse,
qualora le norme dell'altra scuola in quel punto apparissero, dopo maturo
esame, meglio fondate sulla sunnah di Maometto che non quelle
della scuola propria.
Muhammad ibn ‛Abd al-Wahhāb, appena morto
il padre, non esitò ad aggiungere i fatti alla propaganda orale; fra l'altro
non esitò ad abbattere con le proprie mani la cupola eretta sulla tomba d'un
personaggio altamente venerato in un paese vicino e a far lapidare una donna
che, in una crisi di pentimento, si era a lui dichiarata colpevole di
fornicazione. L'animosità contro lui crebbe a tal punto da obbligarlo ad
abbandonare i villaggi dove era vissuto sino allora e a riparare nel 1745 d.
C., a ad-Dir‛iyyah (a nord-ovest di ar-Riyāḍ), il cui emiro Muḥammad ibn Sa‛ūd sposò la
sua causa, a favore della quale mise il suo braccio temporale. Fu un momento
decisivo per il wahhābismo, che da semplice movimento di puritanismo religioso
si trasformò in moto a un tempo religioso e politico-militare: secondo i
principî wahhābiti, come si vide, tutti i non aderenti a essi erano considerati
politeisti o miscredenti e il combatterli senza pietà, dopo averli invitati
invano alla resipiscenza, era un dovere religioso, era un gihād ossia
guerra santa. E la guerra infatti fu scatenata assai presto, nel1746 d. C.,
contro il potentissimo emiro di ar-Riyāḍ fiancheggiato da molte tribù; guerra che
dopo alterne vicende si concluse con la definitiva conquista wahhābita
d'ar-Riyāḍ nel rabī‛ II° 1187 (luglio 1773). Nel frattempo l'emiro Muḥammad ibn Sa‛ūd,
divenuto il fondatore della dinastia sa‛ūdiana ancor oggi regnante, era morto (1765-66)
e gli era succeduto il figlio ‛Abd al-‛Azīz, che aveva continuato la tradizione
religiosa e guerriera paterna; a sua volta il fondatore del wahhābismo, che si
era sempre limitato all'ufficio di propagandista e consulente in materia
giuridico-religiosa e quindi non aveva mai assunto cariche politiche o
militari, morì a ad-Dir‛iyyah alla fine del shawwāl (giugno-luglio 1792), con la
soddisfazione di vedere tutta l'Arabia centrale unificata politicamente e
convertita alle sue dottrine, e queste penetrare anche nel territorio di al-Aḥsā', allora dipendente
dall'Impero Ottomano.
Gli stati limitrofi cominciarono a venire a patti con la crescente potenza
dell'emirato sa‛ūdiano: sceriffi della Mecca, imām di Mascate, governatori
turchi della Mesopotamia e della Siria si sentivano minacciati dalla guerra
santa dei wahhābiti, i quali infatti nel dhū 'l-qa‛dah 1216 (marzo 1802) si
spinsero in pieno ‛Irāq, saccheggiando la città santa sciita di Kerbelā',
trucidandone gran numero d'abitanti e demolendovi la grande cupola, tutta ori e
pietre preziose, eretta sopra la tomba di al-Ḥusain ibn ‛Alī, figlio di Fāṭimah, la figlia di
Maometto. Il 4 muḥarram 1218 (26 aprile 1803) le truppe wahhābite occuparono la Mecca e per
una quindicina di giorni vi attesero a demolire tutte le cupole sepolcrali e i
mausolei venerati e oggetto di visite pie, con grave scandalo e terrore del
mondo musulmano; non molto più tardi si ritirarono. Ma l'attacco al Ḥigiāz ricominciò
nell'anno seguente; Medina fu costretta a capitolare e a riconoscere la
sovranità wahhābita (aprile 1805); anche qui le tombe del cimitero alzate sulla
terra furono abbattute e lo stesso mausoleo di Maometto fu spogliato delle sue
ricchezze e dei suoi preziosi doni votivi. Nell'anno successivo la Mecca e
Gedda venivano ridotte a dipendenze dell'emirato wahhābita, il quale andava
sempre più estendendo le sue conquiste: intorno al 1811 i suoi dominî abbracciavano
il deserto siro-arabico (fino in prossimità di Aleppo, di Damasco e della
vallata dell'Eufrate) e tutta l'Arabia, eccettuati il Yemen propriamente detto
(cioè esclusi l'‛Asīr e parte della Tihāmah yemenita), il Ḥaḍramaut e l'‛Omān. Il
governo ottomano, gravissimamente preoccupato, affidò a Moḥammed ‛Alī, pascià
d'Egitto, l'incarico di domare i wahhābiti. La spedizione egiziana, con molte
difficoltà e in varie riprese e non senza sconfitte, condusse a termine il suo
incarico in sette anni: iniziata nel 1811, liberò Medina nel 1812 e la Mecca
nel 1813 e raggiunse completamente il suo scopo quando, dopo un assedio di
cinque mesi, riuscì a far capitolare la capitale ad-Dir‛iyyah, il 9 settembre
1818. Il sovrano, ‛Abd Allāh ibn Sa‛ūd, si arrese; trasportato a
Costantinopoli, vi fu decapitato. Alla loro volta le truppe egiziane
sgombrarono in maggioranza il Neǵd nell'estate del 1819, pur lasciandovi reparti a
guarnigione delle località principali, ad affermazione dell'alta sovranità
turco-egiziana e a spegnere i focolari d'insurrezioni che di tratto in tratto
si andavano formando per le rivalità e ambizioni dei membri della famiglia
sa‛ūdiana; lo sgombero completo avvenne nel 1840. Il grande stato wahhābita si
era ridotto al Neǵd meridionale, ché il Ḥigiāz era tornato al
dominio turco, il Naǵrān e l'‛Asīr avevano
riacquistato la loto indipendenza, e il Neǵd settentrionale, ossia lo Shammar, si era staccato
dalla soggezione sa‛ūdiana costituendosi in emirato per opera di ‛Abd Allāh ibn
‛Alī ibn Rashīd, fondatore della dinastia degli Ibn Rashī?d nel 1835, ch'ebbe
per capitale Ḥā'il. L'emirato sa‛ūdiano, indebolito dalle lotte intestine e avente come
capitale ar-Riyāḍ dopo la distruzione egiziana di ad-Dir‛iyyah, passò in modo definitivo a
un ramo cadetto della dinastia con Faiṣal ibn Turkī nel 1843; ma la decadenza
continuò al punto che, a partire dal 1881, lo Shammar andò aggregandosi sempre
nuovi distretti della casa sa‛ūdiana, finché nel dicembre 1890 la battaglia di
al-Mulaidah metteva in mano dell'emiro dello Shammar, Muḥammad ibn Rashīd, tutto
il Neǵd.
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