Ilmanifesto, 30 marzo 2018
Alberto Negri
Guerre e fake news. Per mascherare 40 anni di fallimenti, gli Stati uniti ripropongono metodi da guerra fredda per minare la Russia, esigenza condivisa dal mondo occidentale, e per contrastare l’espansionismo sovietico in Asia e in Africa
Siamo entrati in una nuova fase dell’età delle destabilizzazione.
Non bastava la bufala delle armi di distruzione di massa di Saddam
Hussein nel 2003, non erano sufficienti i disastri delle primavere
arabe con la guerra per procura contro l’Iran in Siria e il
bombardamento di Gheddafi in Libia: bisognava fare un salto di
qualità mettendo alle strette la Russia che ha vinto la guerra in
Ucraina con l’annessione e della Crimea nel 2014 ed è diventata
dal settembre 2015 il player decisivo a Damasco.
Ci voleva una nuova guerra fredda perché gli Stati Uniti e la Nato
sono usciti strategicamente a pezzi dal confronto con Mosca, in
particolare proprio in quel conflitto al terrorismo iniziato nel 2001
dopo le Torri Gemelle. Gli europei, pur di abbattere Assad insieme
agli Usa e alle monarchie arabe, sotto lo sguardo attivo
dell’aviazione di Israele nel Golan siriano occupato dal 1967,
hanno esportato dalle loro periferie e poi importato il jihadismo del
Medio Oriente mentre gli Stati Uniti sono stati costretti a tornare
sul terreno in Iraq e poi anche in Siria con risultati quanto meno
contradditori, fino al tradimento degli alleati curdi siriani
abbandonati alla furia turca.
Inoltre gli europei hanno visto arrivare ondate di profughi: pur di
bloccare la rotta balcanica la Germania e l’Europa si sono gettate
in braccia al ricatto del presidente turco Tayyip Erdogan. Che oggi
si è fatto la sua «fascia di sicurezza» in territorio siriano con
l’approvazione di Russia e Iran.
Spicca in questo quadro la posizione dell’Italia che persevera
nella sua dabbenaggine atlantica. Non paga di avere visto distruggere
il suo più importante alleato nel Mediterraneo, di avere accolto
maree di rifugiati dall’Africa – con la conseguenza che
l’immigrazione è diventato il tema che ha ribaltato il quadro
politico interno – si è accodata alle espulsioni dei diplomatici
russi con un governo Gentiloni che neppure all’ultimo è stato
capace di emettere un sussulto. Ci vogliono così, docili.
E Di Maio e Salvini, i «nuovi», sono subito corsi dall’ambasciatore
americano a Roma mentre si stava facendo ancora il nuovo esecutivo:
come se non bastasse per andare al governo la legittimazione del voto
del popolo italiano, dimostrando che l’anelito di sudditanza dei
nostri politici non conosce salti e vuoti generazionali: meglio, di
sicuro, della Nazionale di calcio.
Ma per stare al passo nella nuova era della destabilizzazione non
basta seguire i vecchi copioni. Quando a Istanbul il 4 aprile si
incontreranno Erdogan, Putin e il presidente iraniano Hassan Rohani,
si materializzerà probabilmente un serio tentativo di spartizione in
zone di influenza della Siria: un Paese della Nato, la Turchia, prova
dunque a mettersi d’accordo con il «nemico», ma nessuno osa dire
una parola, né l’Alleanza Atlantica né gli americani.
La Turchia ha cambiato campo ma non si può certificare perché
ospita dozzine di basi Nato e i missili Usa puntati contro Mosca e
Teheran.
Per mascherare questi fallimenti la Gran Bretagna, in concorso con
gli Usa e la Nato, non ha esitato a strumentalizzare l’oscura
vicenda dell’agente russo Skipral e del gas nervino. In mano però
non abbiamo nessuna prova come pure sottolineava non un foglio
particolarmente radicale ma il cattolico Avvenire, quotidiano
moderato, puntuale nel rivelare le pesanti discrepanze che agitano
l’Occidente.
Passa così in sordina anche la rielezione del presidente egiziano
Abdel Fattah Al Sisi: è così imbarazzante che non ne parla nessuno;
dagli Stati Uniti alla Russia, alla Cina, all’Europa, si fa finta
di niente. È uno dei pochi argomenti che uniscono nel silenzio la
comunità internazionale: siccome tutti vendono armi al Cairo o ci
fanno affari, nessuno ha intenzione di sollevare la questione della
democrazia in Egitto.
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