Luciana Castellina dopo l’ attentato a Barcellona ha scritto sul Manifesto un commento “Non aver paura di farsi qualche domanda “ dove ricordava come le guerre occidentali, soprattutto l’ aggressione di Bush all’ Iraq, siano state determinanti per l’ esplodere del terrorismo attuale.
Un lettore è intervenuto sostenendo invece quanto siano proprio le
religioni a rischiare di spingere alla violenza e Castellina gli ha risposto ribadendo la sua tesi pur concordando sul giudizio dell' autore della lettera.
Oggi il Manifesto ha pubblicato un breve contributo di
Giuliana Sgrena ”Religione e terrorismo, qualche utile insegnamento dalle lotte
algerine”.
t.
Per dimostrare che nella molte guerre, attuali e no, nel
Medio Oriente la religione ha una posizione centrale, basta ricordare cosa
rappresenta la città di Gerusalemme per molti credenti di fedi diverse. Ma l' argomento è enorme e non facile ed è evidente che un
eventuale dibattito rischia subito di essere dispersivo e poco utile.
Il mio forte interesse al tema è quello di un attivista contro
la guerra che prova come può ad attirare più attenzione alle guerre della
regione mediorientale e sarebbe contento che dibattessero sul rapporto guerre,
religioni e terrorismo, ambienti diversi che si interessano da anni alla
questione e che sono completamente non comunicanti tra loro.
Per esempio il
pacifismo laico e femminista di Sgrena e Castellina e i cristiani europei che
dal 2011 sostengono la resistenza dei cristiani siriani nella tragica guerra che
ha stravolto questo paese. Probabilmente comunicano reciprocamente molto poco anche
ambienti che potrebbero sembrare vicini. Per esempio dall’ esterno sembra
che sulla guerra siriana non abbiano nessuna linea di azione comune la Comunità di Sant’ Egidio, i francescani di
Aleppo, monsignor Khazen e padre Ibrahim, e l’ ambiente più tradizionale del
pacifismo cattolico, come il Cipax di Roma e Alex Zanotelli.
Segnalo quindi l’ accenno di dibattito sperando in un suo
utile approfondimento.
Difficilmente questo avverrà ma farò il poco che posso
fare per favorirlo.
Non
aver paura di porsi qualche domanda
di Luciana Castellina
Brava Ada Colau a convocare subito una manifestazione a Piazza
de Catalunya, nemmeno 24 ore dopo l’orribile massacro. Bravi i barcellonesi che
a centinaia di migliaia hanno risposto all’appello gridando «no tinc por». E
bravi i cittadini globali che si sono uniti a loro, piangendo per la ferita
inferta alla città simbolo dell’accoglienza e dell’inclusione, ma anche per le
proprie vittime: impressionante la cifra di 35 nazionalità. Hanno espresso,
oltre alla pena per i corpi maciullati, la protesta per l’insulto che è stato
fatto a quello che viene chiamato il «nostro libero modello di vita».
E però c’è qualcosa che non mi convince nella ormai ripetuta
proclamazione dei nostri valori, non sono certa che la nostra idea di libertà
sia davvero così acriticamente proponibile ad un mondo in cui la maggioranza
degli esseri umani ne sono stati privati.
So bene che a proporre questo discorso si entra su un terreno
scivoloso, quasi si volesse negare l’importanza dei diritti e delle garanzie
individuali che la Rivoluzione francese ci ha conquistato, così come il sistema
democratico-borghese che accorpa oramai quasi tutto l’occidente. Non vorrei
scambiarlo con nessun altro sistema attualmente vigente, quale che sia la sua
denominazione. Per questo, del resto, penso si debba difendere un’idea di
Europa che lo salvaguardi dal vortice terrificante che attraversa il mondo.
E però non posso non chiedermi se questo modello, questa idea di
libertà, possono davvero risultare convincenti per chi ne vive la
contraddizione, per chi abita l’altra faccia del modello: una moltitudine di
esseri umani, quelli che disperatamente attraversano il Mediterraneo e vengono
respinti; chi vive nelle desolate periferie urbane e patisce una
discriminazione di fatto (no, non «legale», per carità!); chi abita i villaggi
del Sahel o mediorientali.
La nostra orgogliosa riaffermazione «non abbiamo paura» ha
certamente un senso molto positivo: vuol dire non sopprimeremo la libertà, non
ricorreremo ad antidemocratiche misure di polizia, non ridurremmo per
garantirci sicurezza le nostre libertà. È un messaggio importante ed è bello
che a Barcellona sia stato riaffermato a Piazza de Catalunya. Ma non basta, e,
anzi, ripeterlo, se non ci si aggiunge qualche cos’altro, rischia di essere
controproducente.
Siamo tutti consapevoli che la disfatta che l’Isis sta subendo
sul territorio non rappresenta affatto la fine della minaccia terrorista. Che,
anzi, lo smantellamento delle sue roccaforti potrebbe rendere anche più intenso
il ricorso alle azioni di gruppo, o persino individuali, che colpiscono senza
possibilità di prevedere come e dove. Sappiamo oramai anche che è ben lungi
dall’essere esaurito il reclutamento di giovani jihadisti pronti a morire. Che
provengono dall’Oriente, dal Sud, ma sempre più spesso anche dalla strada
accanto. Contro di loro non c’è polizia che tenga, una sicurezza militare è
impossibile.
La sola ancorché ardua via da imboccare sta innanzitutto
nell’interrogarsi su cosa muove l’odio di questi ragazzi. Non l’abbiamo fatto
abbastanza.
Non ci riproponiamo la domanda con altrettanta forza quando
ribadiamo la superiorità della nostra idea di libertà. E così questo nostro
atto di coraggiosa resistenza rischia di suonare inintellegibile a chi di
quella libertà gode così poco. Perché chiama in causa non solo il nostro
orrendo passato coloniale, le responsabilità per le rapine neocoloniali del
dopoguerra, il razzismo di fatto, le sanguinose, offensive guerre che
continuiamo a produrre con la scusa di portar la democrazia.
Queste sono responsabilità di governi che anche noi combattiamo,
anche se dovremmo farlo con maggiore vigore. (Ha ragione Ben Jelloun che si è
chiesto perché non abbiamo portato dinanzi alla Corte per i delitti contro
l’umanità il presidente Bush, il maggiore artefice dell’esplosione jihadista).
E però c’è qualcosa che tocca a noi, proprio a noi di sinistra,
fare: ripensare il nostro stesso, superiore modello di democrazia, ripensarlo
con gli occhi dell’altro, dell’escluso, sforzarsi di capire la rabbia che
induce al martirio.
Non per giustificarlo, per carità, e neppure per chiudere gli
occhi sulle occultate manovre di potere che guidano e finanziano il terrorismo.
Ma – ripeto – per capire e impegnarsi a ripensare il nostro stesso modello di
civiltà, all’ individualismo che la caratterizza, tant’è che la democrazia la
decliniamo sempre più in termini di diritti e garanzie personali, non come
rivendicazione di un potere che deve riuscire a liberare l’intera umanità.
Penso che questo bisognerebbe gridarlo nelle piazze, aggiungendo
un impegno politico al «non abbiamo paura».
L’Europa, che gli attentati vogliono colpire, è forse il meglio
di questo orrendo mondo globale, ma non è innocente, non può essere riproposta
semplicisticamente come punto d’approdo del processo di civilizzazione.
Religione
e terrorismo, qualche utile insegnamento dalle lotte algerine
Di Giuliana Sgrena
Ho letto – come sempre –
con grande interesse l’articolo di Luciana Castellina di
domenica. Ma mi intriga anche la lettera pubblicata sul manifesto del 23
agosto di Stefano Rossi e la risposta di Luciana.
Penso che da questo dibattito non si possa escludere la
religione, perché il ricorso alla religione (tutte le religioni) è dovuto anche
– o forse soprattutto – al venir meno di valori e di un progetto di società laico
credibile.
Sono finite le ideologie, i valori della Rivoluzione francese (liberté, egalité, fraternité)
non si possono ridurre alla libertà, certo importantissima. Perché se si
dimentica l’uguaglianza (anche quella tra uomo e donna) e la fraternità, la
libertà si coniuga con l’individualismo.
Oggi la religione propone un modello forte e totalizzante,
soprattutto il modello dell’islam globale che dà un senso di appartenenza a una
comunità che va oltre le frontiere e con l’Isis mette in discussione anche i
confini imposti dal colonialismo.
Questa penso sia la forza dell’islam radicale. Che recluta non
solo e non tanto tra i diseredati e gli emarginati ma anche tra giovani
istruiti, anche europei e tra coloro che non erano musulmani e si convertono,
uomini e donne.
Certo le guerre hanno contribuito a incentivare e mobilitare, ma
l’idea del martirio è proprio legata alla religione, alla trascendenza.
Non posso però dimenticare l’esperienza algerina degli anni ’90,
dove i fautori di uno stato teocratico si sono scontrati con la resistenza di
una società che aveva fatto propri i valori della rivoluzione francese, e non
certo per imposizione, anzi. 130 anni di occupazione hanno lasciato un astio
implacabile degli algerini (tutti) contro i francesi ma anche una contaminazione
nella lingua e nella cultura.
In Algeria si sono scontrati violentemente – circa 200.000 morti
– due modelli di società uno teocratico e uno laico. Nessuno ha vinto. La
violenza dei gruppi armati si è convertita al progetto globale. Questo è
avvenuto in Algeria – ignorata dall’occidente – prima della guerra in Iraq, ma
dopo la fine dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan, dove l’occidente
aveva finanziato i gruppi che combattevano in nome della religione la «guerra
santa» contro il comunismo. E pur di sconfiggere il comunismo… Ma poi i
jihadisti sono tornati a casa e hanno continuato la loro «guerra santa» contro
gli infedeli.
E a proposito di martirio non posso dimenticare un’intervista
fatta a Islamabad a dirigenti di Lashkar-e Taiba, la sera prima che il gruppo
che combatte in Kashmir finisse sulla lista Usa dei gruppi terroristici, quando
uno di loro mi disse: «Stavamo combattendo nel Kargil su un ghiacciaio a 4.000
metri, le nostre truppe avevano il morale a terra, allora abbiamo deciso di
introdurre gli attacchi suicidi».
E io: «Ma come, i kamikaze per sollevare il morale?!». «Ecco
perché non vincerete mai – mi rispose – per noi la vita comincia quando per voi
finisce».
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