sabato 24 giugno 2017

Dopo il Brancaccio, Fassina: Discontinuità anche con " l'Ulivo mondiale ", Clinton e l'Unione Europea,


Stefano Fassina prova a inserire la politica internazionale nel dibattito aperto dall' appello di Anna Falcone e Tomaso Montanari.
I due "giovani" professori sono riusciti a lanciare il loro percorso e il dibattito che si sta sviluppando è di grandi dimensioni. I contenuti del processo che si è aperto non possono però essere limitati alla Costituzione Italiana e dipenderanno dal grado di democrazia che avrà la costruzione del programma e la scelta delle candidature. Se il processo avviato sarà sufficientemente indipendente dai partiti e dalle associazioni più grandi e, almeno in parte, espressione delle opinioni dei singoli partecipanti, allora il tentativo assumerà definitivamente un valore superiore alle esperienze elettorali collettive degli ultimi anni.
Sicuramente in questo caso vi entrerà in posizione non marginale anche il tema guerra-pace-spese militari.
Di seguito uno stralcio dell' articolo di Stefano Fassina che secondo me racchiude il senso complessivo del suo scritto:

"Come si può valutare la stagione dei governi di centrosinistra e dell’Ulivo, ma anche degli esecutivi berlusconiani e tecnici, senza considerare il contesto internazionale, l’Ue e l’eurozona? "

M.P.

Stefano Fassina
Il manifesto, 24 giugno 2017

Nell’assemblea del Brancaccio di domenica scorsa, ricca di tante energie civiche e politiche necessarie alla rigenerazione della sinistra di popolo, Tomaso Montanari ha offerto la periodizzazione giusta per spiegare il ritorno a livelli pre-costituzionali della disuguaglianza e riconoscere le responsabilità dei governi incardinati sulla sinistra storica: il quarto di secolo alle nostre spalle, non soltanto il quadriennio renziano del Pd.
Tuttavia, la spiegazione dei «fatti» non può essere ricondotta, soltanto o in misura prevalente, alla debolezza morale, alla dipendenza culturale, al «governismo» o all’opportunismo politico delle classi dirigenti susseguitesi dopo l’89 e, in particolare, dopo il biennio ’92-’93.
Lo sguardo va alzato su tutto l’occidente: dai New Democrats di Bill Clinton al New Labour di Tony Blair, alla Neue Mitte di Gerard Schroeder fino agli epigoni in tutti gli altri paesi europei, Italia inclusa. Allargare lo sguardo fa risaltare le determinanti strutturali della disuguaglianza e del ripiegamento culturale e politico dei governi progressisti post ’89, de «l’Ulivo mondiale», si diceva nel tempo dei governi della «Terza via» al di qua e al di là dell’Atlantico.
Tali determinanti, attivate da Reagan e Thatcher, segnano l’ordine liberista e finanziario del capitalismo globalizzato. Dopo, vengono alimentate dai governi progressisti del paese leader, gli Usa, dove la presidenza Clinton, fortemente condizionata dagli interessi di Wall Street e delle multinazionali manifatturiere, completa la de-regolazione dei mercati finanziari e bancari e consente alla Cina, praticamente senza condizioni, l’ingresso nel Wto.
Da noi, le determinati strutturali della disuguaglianza e della deriva subalterna della sinistra storica sono aggravate da un’integrazione europea avvenuta nel solco dell’egemonia ordo-liberista tedesca: dal Trattato di Maastricht, dal mercato unico e dal disinvolto allargamento a Est, in particolare da alcune devastanti direttive di svalutazione del lavoro (la Direttiva sui posted workers e la Bolkestein, ad esempio). Poi, con effetto moltiplicativo, dall’impianto della moneta unica e dall’agenda mercantilista imposta dalla Germania.
Come si può valutare la stagione dei governi di centrosinistra e dell’Ulivo, ma anche degli esecutivi berlusconiani e tecnici, senza considerare il contesto internazionale, l’Ue e l’eurozona? Come si possono rimuovere il «vincolo esterno» e le specificità dell’Italia, paese di medio-piccole dimensioni, prevalentemente avvinghiato a una specializzazione produttiva a scarso valore aggiunto, sostenuto dalla svalutazione della Lira fino al ’95 e dal ’92 in poi dalla svalutazione del lavoro, zavorrato da un enorme debito pubblico, fattore di ricatto potentissimo per le politiche economiche?
La denuncia degli «errori» dell’ultimo quarto di secolo non genera di per sé le condizioni di praticabilità politica delle soluzioni alternative giustamente invocate al Brancaccio.
Ovviamente, non dobbiamo rinunciare a obiettivi ambiziosi. Dobbiamo, però, definire percorsi praticabili. Non porta lontano invocare la riscrittura dei Trattati europei per conquistare spazi di manovra. Come noto, la modifica dei Trattati richiede l’unanimità e, in alcuni Paesi, è sottoposta a referendum. Soprattutto, per i «paesi core», i Trattati vanno bene così: il loro interesse nazionale è favorito. Ma a Trattati vigenti, come costruiamo le condizioni per la nostra agenda di discontinuità?
Un paio di esempi: la Germania pratica intensamente la svalutazione del lavoro, in particolare con le mitiche «Riforme Hartz», atto profondamente anti-europeo: fatto 100 nel 1998 il valore del tasso di cambio reale effettivo, un affidabile indicatore di competitività, nel 2015, la Germania scende a 88, la Francia sale a 102, l’Italia a 112. Noi che facciamo? Come compensiamo la cancellazione del Jobs Act e delle politiche supply side dei governi alle nostre spalle? Come la mettiamo con il «fiscal compact», in via di inserimento nei Trattati, per la svolta keynesiana da noi prospettata?
La triste parabola di Syriza, esecutore sofferente del più feroce dei Memoranda imposti alla Grecia dal 2010, dovrebbe farci riflettere.
Sono domande scomode, ma inevitabili, dato che il nostro compito non è soltanto allargare in Parlamento la rappresentanza degli esclusi attraverso l’elezione di eccellenze morali, civiche e sociali.
Al 50% più in difficoltà, fuori dal circuito elettorale, la rappresentanza non basta. Gli esclusi, il popolo delle periferie economiche, sociali e culturali, chiedono anche efficacia.
L’unità a sinistra del Pd, in alternativa al Pd, è condizione necessaria, come è necessaria la radicale discontinuità programmatica, per risposte credibili.

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