venerdì 23 maggio 2014

Novembre 2013, Le Monde Diplomatique - La CPI sotto accusa



La fronda dei paesi africani
La Corte penale internazionale sotto accusa

Riuniti in un vertice straordinario, il 12 ottobre 2013 i paesi membri dell’Unione africana hanno chiesto la sospensione dei procedimenti intentati davanti alla Corte penale internazionale (Cpi) contro capi di Stato nell’esercizio delle loro funzioni. Viene così messo in discussione uno dei principi di base della Corte: lottare contro l’impunità dei governanti. Motivata dalla situazione in Kenya, questa domanda evidenzia le contraddizioni inerenti al Tribunale. 

di FRANCESCA MARIA BENVENUTO *

«Dieci anni di lotta contro l’impunità», proclama con orgoglio il sito internet della Corte penale internazionale (Cpi). A partire dalla sua entrata in vigore, nel 2002, questo tribunale di nuovo genere giudica le persone accusate di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, e crimini di aggressione. Lo Statuto di Roma, il trattato fondativo della Cpi, deplora l’elevato grado di impunità, e la nuova giurisdizione è stata pensata proprio in rottura con il diritto penale internazionale classico, ritenuto inefficace. Al contrario del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, e di quello per il Ruanda, i cui interventi si limitano a un territorio e a un periodo storico determinati, la Cpi può giudicare qualunque infrazione avvenuta dopo la sua messa in opera. È sufficiente la presenza di una di queste due condizioni: che l’individuo sospettato sia cittadino di uno dei centoventidue Stati firmatari – sui centonovantatré Stati membri dell’Onu; che i crimini in questione siano stati commessi sul territorio di uno Stato membro. Quest’ultima clausola permette di estendere la competenza della Cpi a paesi che non hanno accettato la sua giurisdizione. Inoltre la persona sospettata non può più esonerarsi dalla responsabilità riparandosi dietro la propria funzione ufficiale: lo status di capo di Stato o di governo, come quello di diplomatico, non protegge comunque dall’incriminazione. Dal 9 settembre 2013, la Corte lavora sul vicepresidente in carica del Kenya, William Ruto, per le violenze seguite alle elezioni del 2007. E del resto nel 2009 la Cpi ha emesso un mandato d’arresto contro il presidente sudanese Omar al-Bashir per le violenze verificatesi nella regione del Darfur.

 Alla Corte si possono rivolgere gli Stati e il Consiglio di sicurezza dell’Onu, ed essa può inoltre agire per iniziativa diretta del procuratore (azione motu proprio), attualmente la gambiana Fatou Bensouda, succeduta all’argentino Luis Moreno Ocampo (2003-2012). Complementare alle giurisdizioni penali nazionali, la Corte interviene solo se la celebrazione del processo si rivela impossibile nel paese in questione, per mancanza di volontà da parte del governo o per lo stato di crisi del sistema giudiziario. La complementarietà, concepita come una «concessione alla sovranità statale (2)», determina però una «discriminazione» a sfavore dei paesi con amministrazioni deboli, soprattutto i più poveri. Non per nulla i venti casi trattati finora riguardano tutti conflitti africani. In chiusura dell’ultimo vertice dell’Unione africana, l’attuale presidente dell’organizzazione, l’etiope Hailemariam Desalegn, ha accusato La Corte di condurre una vera e propria «caccia razziale». Così, malgrado le interessanti innovazioni introdotte nel suo statuto, la Corte non può sfuggire alle critiche. Essa sarebbe contesa fra due mondi, il politico il giuridico. Classico accordo internazionale, lo statuto di Roma è vincolante unicamente per i paesi che l’hanno accettato. Tre membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Stati uniti, Russia e Cina, non l’hanno ancora ratificato. Washington paventa la messa in stato di accusa dei suoi soldati impegnati in operazioni di mantenimento della pace Mosca e Pechino temono procedimenti legati alla Cecenia e al Tibet. Per motivi simili in riferimento alla Palestina, anche Israele non ha riconosciuto la Cpi. Il dipartimento di Stato degli Stati uniti ha fatto firmare ad alcuni dei suoi alleati, soprattutto in Africa, accordi di non estradizione di cittadini statunitensi verso la Cpi nel caso di una loro implicazione in crimini compiuti sul territorio di Stati parte (3).
 
La Corte, dunque, oscilla fra il suo statuto di giurisdizione penale sovranazionale e i compromessi politici sui quali si fonda. Rimane dipendente dalla cooperazione effettiva degli Stati, soprattutto per far eseguire i mandati d’arresto emessi dal suo procuratore, non disponendo di una polizia o di un esercito propri. Malgrado la risoluzione 1556/2004 del Consiglio di sicurezza riguardante il Darfur, il governo sudanese ha sempre rifiutato di collaborare (4). Inoltre, il Kenya e il Chad – riflettendo un ampio consenso sul continente nero – hanno accolto il presidente al-Bashir sul loro territorio senza procurargli alcun problema… Di fronte a simili difficoltà, il procuratore deve dunque corteggiare i governi: la loro cooperazione è la condizione sine qua non del processo, che potrà aver luogo solo in presenza dell’accusato, non essendo previsti procedimenti in contumacia. Le scelte dell’accusa sono influenzate da una certa prudenza diplomatica. Per ottenere il sostegno dei governi, talvolta essa rinuncia alla prerogativa che meglio garantisce la sua indipendenza: la possibilità di avviare inchieste motu proprio. Questo potere, inedito nell’ordinamento internazionale, è stato usato molto poco. Quattro dei casi ai quali la Corte sta lavorando attualmente – riguardanti l’Uganda, la Repubblica democratica del Congo, la Repubblica centrafricana e il Mali – sono stati presentati dai governi interessati.

Moreno Ocampo ha agito di propria iniziativa in due soli casi: in Kenya e in Costa d’Avorio, nel conflitto fra Laurent Gbagbo e il suo concorrente Alassane Ouattara, nel 2012. Per complicare ulteriormente il lavoro del procuratore, Uhuru Kenyatta, accusato di crimini contro l’umanità, e destinatario di un mandato di arresto della Corte dal quale dovrebbe essere giudicato a partire dal 12 novembre, è stato eletto presidente del Kenya il 9 aprile 2013. Ma il margine di manovra della Corte è ulteriormente ridotto dallo ius vitae ac necis («diritto di vita e di morte») che il Consiglio di sicurezza esercita nei suoi confronti. Agendo in virtù del capitolo VII della Carta dell’Onu, il Consiglio può sospendere l’intervento, o al contrario estendere la giurisdizione della Cpi a Stati non parte (mediante un referral). È stato il caso per il Sudan nel 2003 e per la Libia di Muammar Gheddafi nel 2011. La risoluzione 1422 del luglio 2002 ha sospeso le indagini del procuratore sull’operato in Bosnia-Erzegovina – paese che ha firmato lo statuto di Roma – dei caschi blu dell’Onu, in particolare quelli statunitensi. L’azione del Consiglio si rivela dunque eminentemente politica: nel caso del Kenya e del Sudan, l’Unione africana ritiene che le misure adottate siano controproducenti e minaccino il processo di pace nei territori in questione (5). Il 5 settembre, il Parlamento di Nairobi ha chiesto al governo di denunciare la sua adesione alla giurisdizione internazionale, la cui azione minaccerebbe «la stabilità e la sicurezza» del Kenya.

Criticabili anche i criteri di selezione dei casi. Difatti il procuratore persegue solo i crimini che, in modo discrezionale, giudica più gravi (numero di vittime, durata, campo d’azione). E prende in considerazione anche il livello gerarchico dei potenziali responsabili. Questi criteri, molto incerti, hanno portato a scelte contestabili. Il procuratore ha rinunciato ad avviare indagini sulla guerra condotta in Iraq a partire dal 2003 perché «i crimini commessi appaiono di natura isolata e non rispondono al criterio di gravità (6)». Certo, i procedimenti avrebbero potuto essere intentati solo nei confronti di cittadini di paesi che riconoscono la Corte, come il Regno unito. Allo stesso modo, nel 2009 il procuratore non ha dato seguito alle accuse mosse dalla Palestina contro Israele. Moreno Ocampo ha ritenuto che spettasse «agli organi competenti dell’Organizzazione delle Nazioni unite o all’assemblea degli Stati parte decidere, sulla base del diritto, se la Palestina sia o no uno Stato ai fini dell’adesione allo statuto di Roma e, quindi, dell’esercizio della competenza della Corte (7)». Egli si trincerava così, prudentemente, dietro le difficoltà incontrate dalla Palestina nel vedersi riconosciuto dalla «comunità internazionale» lo status di Stato sovrano (8).
 
Amnesty International, dal canto suo, critica la parzialità delle procedure condotte relativamente alla Costa d’Avorio: mentre sono perseguiti l’ex presidente Gbagbo e sua moglie Simone, l’altro attore del conflitto post-elettorale, Ouattara, presidente attuale, non è coinvolto. L’associazione denuncia la «legge dei vincitori (9)». Secondo il procuratore, i crimini compiuti dall’ex capo di Stato sarebbero di una «gravità» tale da giustificare la diligenza della giustizia internazionale. Un altro rimprovero che si può muovere alla Corte è di ordine simbolico. La formula «lotta contro l’impunità» potrebbe nascondere una «giustizia fatta su misura per i potenti (10)». Il sistema penale internazionale corre allora il rischio di diventare uno strumento di legittimazione legale, ma anche morale, per i paesi in grado di sottrarsi alla Corte. L’invocazione di grandi valori dalla definizione forzatamente generica può favorire la politicizzazione delle scelte e aprire la porta a una giustizia a geometria variabile, dimentica del proprio dovere di imparzialità. Inoltre, la ricerca dell’esemplarità aumenta le attese. Oltre alla repressione dei crimini e alla punizione dei colpevoli, la giustizia internazionale diventa in una volta uno strumento di prevenzione, un rimedio contro la guerra, un’arma per la sicurezza globale e un mezzo per rendere giustizia alle vittime e assegnare loro un giusto risarcimento.

Altra innovazione dello statuto di Roma: la vittima partecipa attivamente all’amministrazione della giustizia mentre, davanti ai tribunali ad hoc, è semplice testimone, spesso strumentalizzato dall’accusa. Il suo contributo non è più limitato dalle frontiere probatorie della testimonianza. Ma così, il processo internazionale scivola verso il percorso terapeutico. Secondo alcuni giuristi, la giustizia è «una tappa nella necessaria ricostruzione della vittima (11)» e il nuovo ruolo ottenuto nel processo è «una prima pertinente risposta ai tanti traumatismi subiti (12)». Interpretazioni che rischiano di allontanarci da ogni razionalità giuridica. Esse tradiscono un grave errore ermeneutico, confondendo il diritto di accesso alla giustizia con il diritto di «ottenere giustizia», e avallando in tal modo una visione «giustizialista» delle istanze internazionali. Peraltro, la vittima può essere un elemento perturbatore nel processo, perché la sua emotività può nuocere alla serenità del dibattimento. Davanti alla Corte penale, essa presenta elementi probatori per giustificare il danno subito, ma anche per stabilire la colpevolezza dell’accusato, giocando il ruolo di procuratore privato ufficioso. Così la difesa si trova di fronte a due accusatori. Il simbolismo che rimane al centro della Cpi, tutto favorevole alle vittime, dimentica la figura dell’accusato e rende squilibrato il gioco processuale. Se le attese sono troppo grandi, lo saranno anche le delusioni finali: la Cpi comincia a trovarsi di fronte i «mulini a vento» creati dal simbolismo. È dunque necessario ridurre gli elementi simbolici: perché, come ricorda Tzvetan Todorov, «l’obiettivo della giustizia deve rimanere la sola giustizia (13)».


note:
* Avvocata, dottore in diritto penale internazionale all’università Napoli-II
(1) Si legga Jean-Arnault Dérens, «Justice borgne pour les Balkans», Le Monde diplomatique, gennaio 2013.
(2) Nacer Eddine Ghozali, «La justice internationale à l’épreuve de la raison d’Etat», in Rafaa Ben Achour, Slim Lagmani (a cura di), Justice et juridictions internationales, Pedone, Parigi, 2000.
(3) Si legga Anne-Cécile Robert, «Justice internationale, politique et droit», Le Monde diplomatique, maggio 2003.
(4) Cfr. Nicolas Burniat, Betsy Apple, «Génocide au Darfour: défis et possibilités d’action», Le Moniteur. Journal de la Coalition pour la Cour pénale internationale, n. 37, L’Aja, novembre 2008 - aprile 2009.
(5) Cfr. Jean-Baptiste Jeangène Vilmer, «L’Afrique face à la justice pénale internationale», Le Monde, 12 luglio 2011.
(6) Luis Moreno Ocampo, «The International Criminal Court in motion», in Carsten Stahn, Göran Sluiter (a cura di), The Emerging Practice of the International Criminal Court, Brill, Amsterdam, 2009.
(7) «Situation en Palestine», ufficio del procuratore, L’Aja, 3 aprile 2012.
(8) Per altri esempi relative al criterio della gravità, cfr. il rapporto dell’ufficio del procuratore relativo alle analisi preliminari, 13 dicembre 2011.
(9) «Côte d’Ivoire: la loi des vainqueurs. La situation des droits humains deux ans après la crise postélectorale», Amnesty International, Londra, 26 febbraio 2013.
(10) Danilo Zolo, La Giustizia dei vincitori, Laterza, 2006.
(11) Nicole Guedj, «Non, je ne suis pas inutile», Le Monde, 30 settembre 2004.
(12) Julian Fernandez, «Variations sur la victime et la justice pénale internationale», Amnis, Aix-en-Provence, giugno 2006, http://amnis.revues.org/890
(13) Tzvetan Todorov, «Les limites de la justice», in Antonio Cassese e Mireille Delmas-Marty (a cura di), Crimes internationaux et juridictions internationales.Valeur, politique et droit, Puf, Parigi, 2002. (Traduzione di M. C.)

http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Novembre-2013/pagina.php?cosa=1311lm11.01.html
 

Nessun commento:

Posta un commento